M. Bucciantini: Storia di ribelli, anarchici e lombrosiani

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Titel
Addio Lugano bella. Storia di ribelli, anarchici e lombrosiani


Autor(en)
Bucciantini, Massimo
Erschienen
Torino 2020: Einaudi
Anzahl Seiten
308 S.
von
Brunello Piero

Il libro di Bucciantini è un ritratto, anzi un trittico, di Pietro Gori su sfondo delle tre città in cui egli visse tra la metà degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta dell’Ottocento: Pisa, «centro di attrazione del sovversivismo toscano» (p. 19), dove visse per cinque anni, fino agli inizi del 1891, da studente, fino alla laurea in Legge; Milano, «la città più industriale d’Italia» (p. 124), dove, lasciata Pisa, si fermò, fino all’estate 1894 e, grazie alle «sue doti di oratore e di organizzatore» ridiede «fiducia al movimento» (pp. 124-125); infine Lugano, dove riparò in seguito alle accuse di essere il mandante dell’uccisione del presidente della repubblica francese per mano di Sante Caserio, restandovi fino ai primi di febbraio 1895, quando fu espulso assieme ad altri compagni.

Fu allora che Gori scrisse la canzone Addio Lugano bella, che dà il titolo al libro. Gori aveva trent’anni, e da quel momento avrebbe intrapreso un esilio che l’avrebbe portato in Inghilterra e poi, sulle orme dell’emigrazione italiana, in Canada, negli Stati Uniti, in Brasile e in Argentina. Su questo periodo si sofferma l’ultimo capitolo del libro, che infine si chiude con un Epilogo: tornato in Italia nel 1902 (ma era già rientrato per circa un anno e mezzo nel 1897-1898), Gori sarebbe morto a 45 anni, nel 1911 a Portoferraio nell’isola d’Elba, consumato dalla tubercolosi.

Se della vita di Gori molte cose ci sfuggono, quasi niente si conosce dei suoi compagni, che non hanno lasciato scritti o memorie. «Restano però – osserva Bucciantini – i luoghi delle loro storie, le strade dei loro incontri» (p. 25), a evocare la fisionomia di un possibile ritratto di gruppo. Questi luoghi, fortemente connessi a tradizioni cittadine, appaiono così decisivi che a volte lasciano lo sfondo e occupano il primo piano.

La città di Pisa, o meglio la sua parte «laica, anticlericale e positivista», entra più volte in scena nel libro: «un intreccio di vicoli e piazze nell’affollato quartiere di Santa Maria, tra il Palazzo della Sapienza in via Curtatone e Montanara e piazza dei Cavalieri, sede della Scuola Normale», dove studenti incontrano «giovani operai, artigiani e sfaccendati di vario tipo», dando vita a una città «laica, anticlericale e positivista» (pp. 27-29).

Per quanto riguarda Milano, la geografia della sovversione rimane più sullo sfondo rispetto a Pisa, ma anche qui compaiono talvolta in primo piano «osterie, mescite, trattorie», e successivamente, quando i militanti vogliono sfuggire agli «occhi indiscreti di polizia e carabinieri», i «prati di Ponte Seveso» o «le campagne di Morivione, al di fuori di Porta Romana, altre volte tra le cascine della Melgasciada, fuori Porta Nuova, nella zona nord della città» (p. 124).

Lugano invece, che pure ospita «una piccola comunità internazionalista», non è più quella terra che aveva accolto generosamente gli esuli italiani; dopo «l’escalation del terrorismo in Francia» alla fine degli anni Ottanta (gli anni degli attentati di Ravachol), la classe dirigente in Ticino considera sempre più gli anarchici «un’associazione di malfattori» da respingere o da allontanare, mentre i luoghi tradizionalmente frequentati dagli esuli italiani – la sartoria Pacini, il Teatro-Caffè Rossini e l’osteria la Cantina Veneziana – vengono percepiti «come luoghi pericolosi» (pp. 206-208). Gori per primo si sentiva minacciato, tanto da girare con un revolver, e una volta sparò in aria due colpi per difendersi da due tizi che gli avevano sparato addosso colpendolo di striscio (pp. 212-213).

A Lugano avviene l’epilogo di una delle trame narrative sotterranee su cui Bucciantini costruisce il suo libro, in questo caso ricalcando esplicitamente il rapporto dei due protagonisti dei Miserabili di Victor Hugo: il galeotto in fuga Jean Valjean e l’ispettore Javert. Come l’A. ricorda più di una volta, Jean Valjean è Pietro Gori, mentre Javert è il prefetto Giuseppe Sensales. Quando Gori venne processato a Pisa per la pubblicazione dei Pensieri ribelli, Sensales, allora prefetto in quella città, auspicò una condanna per reato di stampa; dopo che Gori fu prosciolto, Sensales intervenne presso il suo collega di Lucca perché sequestrasse l’eventuale pubblicazione dell’opuscolo, di cui aveva avuto notizie confidenziali (pp. 76-77), e mandò una nota riservata al delegato di polizia di Cecina perché svolgesse indagini sulla visita di Gori a Cecina, Vada e Rosignano, per scoprire «quali discorsi abbia tenuti e con chi per eccitare cotesti operai allo sciopero per principio di solidarietà» (p. 79); quando fu promosso direttore generale della Pubblica Sicurezza (fu lui a creare uno schedario dei sovversivi che si sarebbe trasformato nel Casellario politico centrale), Sensales chiese a Crispi «di provvedere a che l’Avv.to Gori sia chiamato a rispondere innanzi all’Autorità Giudiziaria della propaganda che sta facendo, la quale se per avventura non induce le plebi all’azione, le prepara pei tempi che egli annuncia non lontani»; e quando infine Gori riparò a Lugano, «l’ispettore Sensales-Javert già pregustava di avere tra le mani la sua preda, il suo Jean Valjean» (p. 215), e telegrafò al prefetto di Como di arrestare Gori nel caso quest’ultimo, abboccando a una trappola ideata dal prefetto di Vicenza, ripassasse il confine (ibid.). Gori non tornò in Italia, e due anni dopo Sensales lasciò il suo incarico a Roma. Se Valjean si salvò grazie a un’insurrezione parigina, Gori scampò al carcere contando su una rete di compagni che gli organizzarono un’imponente attività di propaganda nelle Americhe.

Un’altra analogia ricorrente nel libro è quella tra le vicende biografiche di Pietro Gori, e più in generale del movimento anarchico a cavallo tra Otto e Novecento, e il Sessantotto. Se fosse nato ottant’anni anni dopo, osserva in un punto l’A., Gori sarebbe stato un «pericoloso sovversivo sessantottino » del movimento pisano, assieme ad Adriano Sofri e altri che vengono citati, e avrebbe conosciuto Franco Serantini, morto a vent’anni «dopo essere stato violentemente picchiato dagli agenti della Celere sul lungarno Gambacorti» (pp. XV-XVI). A me pare invece che, scrivendo su Gori, l’A. rifletta sugli anni Settanta in Italia. Quando cominciarono in Europa gli attentati contro capi di Stato in nome dell’anarchia, i governi si chiesero chi fossero i «cattivi maestri», e quale fosse l’ambito ideologico da cui provenivano gli atti terroristici, individuando nell’anarchismo la responsabilità di aver promosso «la teoria dell’assassinio» (pp. 200-201), grazie alle spiegazioni scientifiche fornite dalla scuola lombrosiana (su cui l’A., che insegna Storia della scienza, si diffonde a lungo). Bucciantini risponde invece che fu la «criminalizzazione del movimento» a «moltiplicare i sentimenti di rivolta e di simpatia» nei confronti «di chi aveva scelto l’arma della vendetta individuale e della violenza spontanea» (p. 135), rendendo in questo modo arduo il compito di chi – come Gori e Malatesta – «intendeva proseguire nel fondamentale lavoro di organizzazione e di agitazione sociale rifiutando fanatismo e terrorismo» (p. 135). L’argomento ricorda la discussione tra chi, fin dagli anni Settanta del Novecento, incolpava – e incolpa – il Sessantotto di aver dato origine al terrorismo e chi invece invitava – e invita – a cercarne le cause nella criminalizzazione della protesta (e nella «strategia della tensione»). In questo modo, almeno a chi ha vissuto gli anni del terrorismo, il libro di Bucciantini sembra un altro tassello autobiografico con cui una generazione ripensa alla propria storia.

Zitierweise:
Brunello, Piero: Bucciantini, Massimo: Addio Lugano bella. Storia di ribelli, anarchici e lombrosiani, Torino 2020. Zuerst erschienen in: Archivio Storico Ticinese, 2021, Vol. 170, pagine 101-103.

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Zuerst veröffentlicht in

Archivio Storico Ticinese, 2021, Vol. 170, pagine 101-103.

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